Dal Dipartimento di studi del territorio di Università e Politecnico di Torino, Karl Krähmer, impegnato con il Movimento per la Decrescita Felice, si è trasferito in Cile. Fa lì il suo dottorato, indagando la geografia delle relazioni commerciali globali della frutta prodotta in fondo al Sudamerica per tutto il mondo. Un’ottima occasione per approfondire le possibilità concrete di nuove strategie di decrescita non solo a quella locale ma a molteplici scale. E, forse soprattutto, un’opportunità per guardare da vicino lo “sviluppo” di un Paese che non corrisponde a quel che lo sguardo neo-coloniale considera “Terzo mondo” ma che dipende in modo essenziale dalle esportazioni di materie prime e di prodotti agricoli. L’acqua, la salute, i trasporti, l’educazione, le pensioni, in Cile, sono stati privatizzati da tempo, ma nel 2019 solo la pandemia ha fermato un’esplosione sociale segnata da rivolte generalizzate e impetuose che avevano travolto anche la governabilità nazionale. Poi, quelle rivolte avevano comunque messo radici profonde in centinaia di assemblee popolari di quartiere o locali. Nel dicembre 2021, infine, la vittoria delle sinistre politiche con l’elezione di Gabriel Boric, che ha giurato a Valparaiso nelle scorse settimane, il più giovane presidente della storia cilena. E ancora le speranze accese dalla nuova Costituzione e le prime delusioni sulla continuità di comportamento estrattivista dello Stato, così come il rifiuto di riconoscere nella Convención Constitucional i diritti della natura. È un angolo estremo del mondo di straordinario interesse il Cile di questi anni, a cominciare ancora una volta dal racconto della straordinaria capacità di resistenza e di recupero dei territori espropriati da parte dei Mapuche, ma la possibilità di poterlo guardare stavolta con la prospettiva della decrescita sarebbe davvero molto invitante
Sono attualmente in Cile per il mio dottorato. Sto indagando la geografia delle relazioni commerciali globali della frutta prodotta lì per tutto il mondo. La mia domanda centrale è che cosa se ne può imparare per sviluppare strategie di decrescita a molteplici scale (e non solo a quella locale). Vi racconto qui, in maniera informale, spontanea e poco metodica, alcune mie osservazioni, più o meno legate alla mia ricerca che spero possano interessare a chi legge questo sito.
Mi è successo tante volte in questi mesi che persone molto diverse – giovani ragazzi in montagna, professori universitari oltre i 60 anni, tendenzialmente persone ben formate, di sinistra come di destra – mi dicessero: “Il Cile è un paese del terzo mondo” o “Il Cile è un paese in via di sviluppo”.
Questi commenti mi turbavano, per due ragioni. Da un lato perché se accettiamo i termini secondo i quali storicamente si definiscono comunemente i paesi in via di sviluppo, il Cile, per molti aspetti non vi assomiglia affatto. Dall’altro lato per i molti dubbi che ho rispetto alla bontà stessa del concetto di sviluppo – il continuo riferimento a esso però dimostra che l’idea retrostante è ancora diffusa e forte.
Che cos’è un paese in via di sviluppo? Senza scomodare in queste poche righe di riflessione spontanea grandi citazioni, mi viene da dire (se interpreto bene un certo sentire comune in Europa) che un paese in via di sviluppo è un paese in cui mancano una serie di standard e servizi essenziali a cui in Europa siamo abituati. Un paese con molta povertà estrema, gente che ha fame e così via.
Queste cose, però, non ci sono – o quantomeno non ci sono in una misura sensibilmente maggiore ai paesi cosiddetti “sviluppati” in cui ho vissuto (Germania, Italia, Portogallo). C’è gente che vive e chiede l’elemosina per strada, certo, ma quello c’è anche a Torino. A livello tecnologico il Cile corrisponde a molti standard di un paese “moderno”: ci sono strade asfaltate quasi ovunque, c’è un’autostrada che taglia il paese da Nord a Sud, c’è un’ottima, a volte lenta, ma affidabile rete dei trasporti pubblici, molto utilizzata – forse indice del fatto che un po’ meno persone possiedono una macchina rispetto all’Italia, anche se dal numero di auto, prevalentemente SUV abbastanza nuovi, che si vedono in circolazione non si direbbe. Il cellulare prende bene quasi ovunque ed è onnipresente, si può bere l’acqua dal rubinetto senza problemi e c’è cibo in abbondanza (la qualità è un punto debole, ma questo è un altro tema).
È vero, invece, che in Cile praticamente tutti i servizi sono privatizzati: l’acqua, la salute, i trasporti, l’educazione, le pensioni. Sono servizi spesso cari, non sempre di buona qualità e sicuramente di accesso molto iniquo. È anche vero però che i servizi ci sono e ci sono anche servizi pubblici che, almeno fino a un certo punto, colmano le lacune dei servizi privati. Il servizio pubblico di vaccinazione si è dimostrato uno dei più efficaci a livello globale nelle vaccinazioni contro il Covid.
Per molti cileni viaggiare in Europa è un sogno mentre per molti in Europa viaggiare in Sudamerica è una realtà. Però già per le persone della mia età che ho incontrato, viaggiare sta diventando un sogno molto più accessibile e realistico, a cominciare magari da un giro in Perù o in Argentina.
L’elemento più strutturale in cui il Cile ricorda l’idea di un paese “in via di sviluppo” è però la sua dipendenza dalle esportazioni di materie prime e di prodotti agricoli. Le entrate più importanti del Paese provengono dall’industria mineraria, rame in primo luogo ma anche litio, oro e molto altro. Poi ci sono la frutta, il salmone d’allevamento, l’industria forestale (di cui ho scritto qui e qui). Sono esportazioni che generalmente lasciano il paese prima di subire grandi elaborazioni che darebbero valore aggregato. Mentre i prodotti tecnologici, quasi tutti, si importano: dalle auto ai macchinari per imballare la frutta (questi ultimi prevalentemente dall’Italia, tra l’altro).
Va detto però che, rispetto a molti altri paesi ricchi di materie prime al Cile, almeno economicamente, sembra vada relativamente bene. Se guardiamo l’indice di sviluppo umano, che combina un indice di reddito con uno di istruzione e un altro sull’aspettativa di vita, il Cile si trova, con 0,847, nella categoria “molto alto”, al 43° posto a livello globale, una decina di posti dopo l’Italia (0,892), cinque dopo il Portogallo e comunque davanti a Croazia, Romania e Russia.
Ovviamente non è che le persone che mi hanno parlato del Cile come paese in “via di sviluppo” siano sceme, e tantomeno lo è chi ha protestato nel 2019 per la giustizia sociale, ottenendo un processo, in corso, per l’elaborazione di una nuova Costituzione. I problemi sociali in Cile sono complessi – si parla molto delle elevate disuguaglianze (elevate però non più che in altri Stati sudamericani) e di temi come la privatizzazione dei servizi pubblici nel processo neoliberista cominciato con la dittatura di Pinochet e proseguito dopo. Allo stesso tempo, però, negli ultimi vent’anni i livelli di povertà sono molto diminuiti e il livello di istruzione è aumentato di molto.
Per molti aspetti, la storia delle proteste del 2019, del cosiddetto “estallido social”, le cui tracce sono molto visibili nelle strade della capitale, ricorda il ‘68 europeo. Da un lato ci sono le richieste per più giustizia sociale e più equità. Richieste che però trovano spazio in un momento storico in cui la posizione economico-sociale di molte e molti in realtà è migliorata – e dunque, forse, ci sono una maggiore capacità e un maggiore coraggio per organizzarsi. Qualcuno dice pure che le condizioni sono migliorate, però meno delle aspettative, soprattutto per chi ha studiato all’università – e quindi sarebbe stata quella discrepanza a motivare la rivolta.
Insomma, in Cile ci sono degli stili di vita molto simili all’Europa – oltre a quanto descritto, c’è anche un’abbondanza di offerta di prodotti di consumo di tutti i tipi per chi li può consumare – e definire il Cile come paese in via di sviluppo tout court, come strutturalmente altro da un paese europeo, per esempio, mi pare piuttosto strano. Vedo piuttosto un continuum in cui il Cile è magari un po’ più povero dell’ideale di un paese sviluppato, ma non più di tanto.
Ora, il problema forse è proprio quel continuum. Storicamente il concetto di sviluppo applicato all’economia nasce dopo la Seconda guerra mondiale, negli Stati Uniti. Il contesto era quello della de-colonizzazione e una delle idee sottostanti era quella di garantire che i Paesi (a breve indipendenti) che erano fornitori di materie prime per Europa e USA, lo rimanessero. Per questo dovettero rimanere nel sistema di scambi globali (diseguali), anche se non più come colonie. Questo, con la promessa che se avessero continuato su questa strada, a un certo punto avrebbero potuto raggiungere i Paesi cosiddetti “sviluppati”. Con l’assunzione dell’idea che per tutti quel cammino giusto fosse lo stesso.
Che significherebbe per il Cile avanzare su questo cammino lineare dello “sviluppo”?
Probabilmente sfruttare ancora di più le sue materie prime, produrre ancora di più salmone e legna e frutta, magari con tecnologie sempre migliori e più efficienti, come suggerivano, nella mia ricerca, gli intervistati più convinti di questa strada. E dunque arrivare attraverso queste pratiche estrattiviste – magari “neo-estrattiviste”, cioè con più politiche sociali – a un “benavere” economico che farebbe diventare il Cile così poco ecologicamente sostenibile come gli Stati del nord del mondo. Ma già oggi, in linea con gli standard di vita abbastanza alti, il Cile ha un’impronta ecologica pro capite di 4,3gHa, come quella dell’Italia[1].
Oppure no?
Ovviamente anche in Cile si parla di sostenibilità e lo sviluppo oggi è sempre auspicato come “sostenibile” ma sappiamo che questo concetto è una chimera e che non c’è modo di rendere la crescita economica illimitata compatibile con la sostenibilità ambientale e quindi con il garantire a lungo termine buone condizioni per la vita umana su questo pianeta.
Ma non tutte e tutti oggi in Cile credono nello sviluppo. Sembrano assai poco convincenti le interpretazioni che vedono l’estallido social del 2019[2] principalmente come espressione di un malcontento rispetto a uno sviluppo insoddisfacente. C’è di certo una parte di verità in esse, ma allo stesso tempo, nelle molteplici sfaccettature di quelle proteste, c’è anche una consapevole critica al modello di sviluppo in sé.
Quella critica si rivolge certamente alle diseguaglianze, all’ingiusta distribuzione di reddito e ricchezza ma anche agli effetti negativi dello sviluppo stesso: l’accapparramento di terre dei Mapuche, l’inquinamento da parte delle industrie, l’appropriazione dell’acqua che, in alcuni casi, come a Petorca, viene usata per irrigare piante di avocado per l’esportazione e viene meno per il consumo umano. Un ragazzo del Museo del Estallido Social a Santiago mi ha confermato un atteggiamento critico rispetto al modello dello sviluppo illimitato. E nel dibattito sulla Costituzione ci sono molti temi interessanti, come quello di dare un diritto all’esistenza alla natura, di garantire che le risorse naturali siano pubbliche e che il loro sfruttamento non possa portare a inquinamento e distruzione ecologica. C’è anche chi in Cile scrive di decrescita e credo che ci siano almeno alcune basi per un cambiamento culturale che anche qui possa mettere in crisi l’idea dominante dell’obietto di crescita e sviluppo e che possa definire strade diverse verso il benessere delle persona.
Ma ovviamente anche in Cile queste proposte incontrano resistenze. Anche il nuovo presidente, Gabriel Boric, espressione di una nuova sinistra ecologista che ha origine proprio nei movimenti sociali degli ultimi dieci anni, nel suo discorso di insediamento ha parlato della crescita economica come di un obiettivo importante. Vedremo nella pratica se questa affermazione sia stata fatta con seria convinzione o piuttosto come una concessione di realismo politico a un sentire comune che sicuramente vede ancora maggioritariamente la crescita economica come positiva, in un paese che negli ultimi decenni ne ha effettivamente beneficiato. Speriamo però che giustizia sociale ed ecologica, cura dell’ambiente e lotta alla crisi climatica, altrettanti obiettivi dichiarati del nuovo governo, siano alla fine i suoi principi guida.
Note:
[1]È vero che il deficit tra spazio ecologico disponibile nei confini nazionali del Cile è molto minore rispetto a quello dell’Italia, perché la densità di popolazione è di molto inferiore. Trovo però che questo sia un concetto molto problematico: da un lato molti problemi ecologici sono globali e non si fermano ai confini nazionali, dall’altro lato I confini degli stati sono per molti versi assai arbitrari e credo abbia poco senso dire: la tua impronta ecologica si deve orientare secondo lo spazio ecologico disponibile pro capite nello stato in cui abiti.
[2]Un altro tema importante delle proteste che qui non voglio approfondire è la critica alla polizia, in associazione al dibattito sull’eredità di violazioni dei diritti umani da parte della brutale dittatura di Pinochet.
*membro del Direttivo MDF e dottorando al DIST, dipartimento di studi del territorio di Università e Politecnico di Torino.
Articolo tratto da: comune-info.net https://comune-info.net/un-paese-in-via-di-sviluppo/